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Il significato del lavoro nell’era dell’Intelligenza Artificiale

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di Maria Chiara Tafa

Abstract: Il Primo Maggio celebra da sempre il valore del lavoro e dei lavoratori. Ma nel 2025, insieme ai lavoratori in carne e ossa, c’è un nuovo “collega” che sta trasformando il mondo del lavoro: l’Intelligenza Artificiale. Dagli uffici ai reparti produttivi, algoritmi e sistemi di AI stanno affiancando le persone in molti compiti quotidiani. Questo scenario porta a chiederci: che significato ha il lavoro oggi, nell’era dell’AI? È una minaccia al ruolo umano o un’opportunità per riscoprire ciò che rende unico il contributo delle persone?

Lavoro e tecnologia: un’accelerazione senza precedenti

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’accelerazione tecnologica vertiginosa. Basti pensare che ChatGPT – un sistema di AI conversazionale – ha raggiunto 100 milioni di utenti in soli due mesi dal lancio​, diventando l’applicazione consumer a crescita più rapida di sempre. L’AI generativa, capace di creare testi, immagini o codici su richiesta, è passata in brevissimo tempo da novità per tecnofili a strumento alla portata di tutti. Questo salto di velocità non ha precedenti: significa che intere categorie di attività possono essere rivoluzionate quasi dall’oggi al domani.

In azienda, l’AI sta già alleggerendo o automatizzando molte attività ripetitive. Studi recenti evidenziano che oltre il 40% delle attività lavorative negli Stati Uniti potrebbe essere automatizzato, aumentato o reinventato grazie all’AI generativa​. Ciò non vuol dire che il 40% dei posti di lavoro sparirà, ma che quasi ogni ruolo vedrà cambiare qualche attività al suo interno. Ed è proprio qui che entra in gioco il significato del lavoro: se alcune mansioni “routine” vengono delegate alle macchine, il lavoro umano può concentrarsi su aspetti a maggior valore aggiunto – creatività, problem solving, relazione – ridefinendo di fatto il contenuto del lavoro stesso.

Non sorprende quindi che i lavoratori vivano sentimenti contrastanti. Da un lato c’è preoccupazione: il 49% dei lavoratori teme che l’AI possa rimpiazzare il proprio ruolo​. Dall’altro, c’è curiosità e speranza: il 70% dei lavoratori delegherebbe quante più attività possibile all’AI per alleggerire il proprio carico​. In effetti, già oggi il 75% dei dipendenti utilizza strumenti di AI in qualche forma nel proprio lavoro quotidiano​ – spesso usando tool personali prima ancora che l’azienda li fornisca ufficialmente. Questo significa che l’ondata dell’AI sul lavoro è inarrestabile e in parte guidata dagli stessi lavoratori, non solo imposta dall’alto.

Di fronte a questa rivoluzione, le organizzazioni hanno due scelte: ignorarla, rischiando di restare indietro, oppure abbracciare l’AI in modo strategico e umano-centrico. La storia insegna che ogni innovazione tecnologica – dalla macchina a vapore al computer – ha portato a timori ma anche a una trasformazione dei lavori, spesso creandone di nuovi. L’AI non fa eccezione: sta cambiando come lavoriamo, ma lascia alle persone la possibilità di ripensare perché lavoriamo e su quali aspetti unici focalizzarci.

AI in ambito HR: dal recruiting alla valorizzazione delle persone

Se c’è un settore aziendale dove il fattore umano è centrale, quello è l’HR (Risorse Umane). Paradossalmente, è anche uno degli ambiti dove l’AI sta entrando prepotentemente, non per “disumanizzare” ma per supportare i professionisti HR in compiti prima onerosi. Pensiamo al recruiting: oggi algoritmi di intelligenza artificiale possono filtrare migliaia di CV in pochi secondi, individuando i candidati più in linea con una posizione. Chatbot intelligenti rispondono alle domande iniziali dei candidati e pianificano colloqui, liberando tempo ai recruiter per dedicarsi ai colloqui più strategici e alla valutazione delle competenze.

Un esempio lampante viene da IBM, che da alcuni anni utilizza un’AI interna per la gestione dei talenti. Il sistema, basato su IBM Watson, è in grado di prevedere con 95% di accuratezza quali dipendenti siano a rischio di lasciare l’azienda. Questo programma di “attrition prediction” non si limita a fare previsioni: fornisce ai manager indicazioni su come intervenire (ad esempio piani di crescita o incentivi personalizzati) per aumentare la soddisfazione di quei dipendenti a rischio. Il risultato? IBM ha non solo ridotto il tasso di abbandono, ma ha anche potuto ridimensionare il proprio dipartimento HR​, redistribuendo quelle risorse verso attività più strategiche.

La ex-CEO di IBM Ginni Rometty ha dichiarato che a suo avviso “l’AI cambierà il 100% dei posti di lavoro nei prossimi 5-10 anni”​. Attenzione: “cambiare” non vuol dire eliminare, bensì trasformare ogni mestiere integrando componenti di intelligenza artificiale. Nel campo HR questo significa che il ruolo del professionista HR si evolve: meno lavoro amministrativo manuale (perché svolto dall’AI) e più focus sull’analisi strategica dei dati e sul supporto umano ai dipendenti. Ad esempio, invece di compilare report, oggi un HR Business Partner può interpretare i dashboard di people analytics generati dall’AI e trarne insight su clima aziendale, performance o necessità formative dei team. L’AI può evidenziare correlazioni che sfuggono all’occhio umano (come segnali sottili di calo di engagement in un reparto) così che l’HR possa intervenire proattivamente.

Anche la selezione e valutazione del personale beneficiano dell’AI. Piattaforme che usano algoritmi di machine learning promettono di ridurre i bias nelle assunzioni valutando candidati in modo più oggettivo (ad esempio analizzando le competenze chiave in colloqui video tramite algoritmi di NLP). Ovviamente c’è un dibattito aperto sull’etica: un algoritmo va progettato con attenzione per non amplificare pregiudizi esistenti nei dati. Sta ai professionisti HR assicurarsi che l’AI sia uno strumento di inclusione e non di discriminazione, ad esempio monitorando costantemente i risultati e la fairness dei modelli usati nel recruiting.

In sintesi, nell’ambito HR l’intelligenza artificiale sta diventando un “collega digitale” che svolge il lavoro pesante di analisi dati, burocrazia e screening iniziale, lasciando alle persone il lavoro che meglio si confà agli umani: prendere decisioni empatiche, motivare, costruire cultura aziendale. L’AI in HR non sostituisce il “tocco umano” – lo potenzia, permettendo ai professionisti di concentrarsi sulle persone con un livello di informazione e supporto mai avuto prima.

AI per la formazione continua: il nuovo ruolo di L&D

In un mondo dove le competenze diventano rapidamente obsolete, la formazione aziendale (Learning & Development) assume un’importanza cruciale. Anche qui l’AI sta giocando un ruolo da protagonista, rivoluzionando sia il modo in cui i dipendenti apprendono, sia il lavoro dei formatori L&D. Un dato su tutti evidenzia la sfida attuale: il 55% dei lavoratori dichiara di aver bisogno di ulteriore formazione per svolgere al meglio il proprio ruolo​. E perché le persone sentono questo bisogno? Perché l’accelerazione tecnologica – AI in primis – richiede competenze nuove a un ritmo incalzante. Diventa essenziale quindi offrire apprendimento continuo, personalizzato e flessibile.

L’intelligenza artificiale applicata alla formazione consente di personalizzare i percorsi di apprendimento come mai prima d’ora. Ad esempio, piattaforme LMS dotate di AI possono analizzare il profilo di un dipendente – ruolo, skill attuali, performance, interessi – e raccomandare i corsi o i contenuti più rilevanti per colmare le sue lacune o supportare i suoi obiettivi di carriera​. È un po’ come Netflix, ma invece di film l’AI suggerisce il prossimo modulo formativo ideale per te. Questo porta benefici sia al lavoratore (che riceve formazione su misura, evitando training generici poco utili) sia all’azienda, che vede aumentare l’efficacia dei programmi di sviluppo.

Non solo: l’AI può adattare dinamicamente il livello dei contenuti in base ai progressi dell’utente. Se un dipendente sta apprendendo troppo facilmente un certo argomento, il sistema può proporre subito esercizi più avanzati, evitando di far perdere tempo; viceversa, se fatica su un modulo, l’AI può offrire ripassi o materiali aggiuntivi​. In pratica si realizza il sogno dell’“apprendimento adattivo”, cucito addosso alla persona.

L’AI supporta anche la formazione on-the-job con assistenti virtuali disponibili h24. Immaginiamo un neo-assunto che durante un progetto possa chiedere aiuto a un chatbot interno: “Come eseguo questa procedura?” e ottenere subito la risposta, magari con un video tutorial, il tutto perché l’AI ha indicizzato manuali e FAQ aziendali. Questo tipo di AI coach o tutor virtuale rende l’apprendimento parte integrante del lavoro quotidiano, sempre accessibile nel momento del bisogno (just-in-time learning).

Per i professionisti L&D, l’avvento dell’AI significa ripensare il proprio ruolo. Meno analisi manuale di dati (come i feedback dei corsisti) e più interpretazione strategica di dashboard intelligenti che evidenziano dove i programmi funzionano e dove no. In pratica, l’AI può occuparsi dell’operatività e permettere ai responsabili formazione di essere designer di esperienze di apprendimento e consulenti interni per lo sviluppo del talento. È un cambiamento stimolante: significa dare alla formazione un ruolo ancora più centrale nel guidare l’evoluzione delle competenze aziendali.

AI nei diversi settori: verso una collaborazione uomo-macchina

L’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro non si ferma alle funzioni HR o L&D – si estende a praticamente ogni settore e professione. Ormai possiamo trovare esempi di collaborazione uomo-macchina in molti ambiti diversi, dal rapporto con i clienti alla produzione di beni.

Nel customer service ad esempio, molte aziende impiegano assistenti virtuali AI per gestire le richieste di base dei clienti. Un caso noto è Erica, l’assistente virtuale di Bank of America, che ha interagito con milioni di clienti rispondendo a domande su saldo, transazioni e servizi bancari. Mentre il bot gestisce in autonomia le FAQ e le operazioni semplici, gli operatori umani possono dedicare più tempo ai casi complessi o a offrire consulenze personalizzate di alto valore. Il risultato è duplice: da un lato la produttività aumenta (Erica può gestire enormi volumi 24/7), dall’altro il lavoro del customer care diventa più qualificato e interessante per le persone, che non devono ripetere all’infinito le stesse risposte ma intervengono dove serve davvero un giudizio umano.

Nel settore manifatturiero e logistico, l’AI insieme alla robotica sta trasformando fabbriche e magazzini. I robot industriali ormai non sono più entità isolate dietro gabbie di sicurezza: sempre più spesso sono cobot (robot collaborativi) che lavorano fianco a fianco con gli operai. Ad esempio, in molte linee di montaggio automotive, visori AI controllano la qualità di ogni pezzo e segnalano difetti impercettibili all’occhio umano, mentre gli operatori supervisionano il processo e intervengono per risolvere i problemi segnalati dalla macchina. Nella logistica, algoritmi intelligenti ottimizzano i percorsi di movimentazione delle merci; i magazzinieri oggi utilizzano wearable device che dialogano con sistemi AI per indicare il percorso più efficiente per prelevare prodotti, riducendo i tempi morti. Il lavoro manuale diventa così più tecnologico e meno gravoso: meno fatica fisica e più controllo dei processi, più gestione delle eccezioni che esecuzione cieca.

Anche nelle professioni creative e della conoscenza vediamo l’AI come partner di lavoro. Architetti e designer usano algoritmi generativi per esplorare centinaia di variazioni di un concept (che sia il design di un prodotto o la planimetria di un edificio) in pochi click, cosa che manualmente richiederebbe giorni. Copywriter e marketer si avvalgono di strumenti come GPT-4 per ottenere bozze di testi o slogan: l’AI produce un primo draft che poi l’umano modifica e adatta con il proprio estro. Programmatori software lavorano con i cosiddetti AI pair programmer (ad esempio GitHub Copilot) che suggeriscono in tempo reale porzioni di codice durante la scrittura, accelerando lo sviluppo e aiutando a evitare errori. Questi esempi mostrano un pattern comune: l’AI fornisce quantità (di bozze, di opzioni, di analisi) e l’umano mette qualità (il giudizio finale, la creatività, la decisione).

Interessante notare che stanno nascendo anche nuove figure professionali legate all’AI. Un esempio è il Prompt Engineer, lo “specialista dei prompt” che sa come dialogare con i modelli generativi per ottenere risultati ottimali – ruolo impensabile fino a pochi anni fa. Oppure l’AI Ethicist, esperto di etica dell’AI, che aiuta le aziende a usare queste tecnologie in modo responsabile definendo policy e guideline (ad esempio evitando bias nei modelli o garantendo trasparenza). Questo a dimostrazione che l’AI oltre a trasformare i lavori esistenti, ne sta creando di nuovi, alcuni dei quali con un forte contenuto di senso sociale (si pensi all’importanza etica di guidare un’AI “giusta”).

Cambiano i contenuti del lavoro, ma non per forza si perde significato. In ciascuno di questi settori, quando l’AI assume compiti ripetitivi o analitici, libera tempo umano che può essere impiegato altrove. La chiave è ridisegnare il lavoro in modo che umani e macchine lavorino insieme, ciascuno facendo ciò che sa fare meglio. Come hanno osservato gli esperti di KPMG in un recente convegno, le organizzazioni più lungimiranti usano l’AI “per rifocalizzare il lavoro su ciò che gli esseri umani sanno fare meglio”, creando team in cui la tecnologia valorizza i punti di forza individuali e “dà alle persone lavori significativi che creano senso di appartenenza”​. In poche parole, l’obiettivo è usare l’AI non solo per fare di più, ma per lavorare meglio, in modo più umano.

Oltre l’efficienza: il lavoro come realizzazione e identità

Tutta questa innovazione porta con sé una domanda fondamentale: se il lavoro cambia così tanto, come possiamo preservarne (o riscoprirne) il significato profondo per le persone? Il rischio di vedere l’AI solo come strumento di efficienza è di trascurare l’aspetto umano: il lavoro non è importante solo perché “produce”, ma perché attraverso di esso le persone si realizzano, crescono e trovano in parte la propria identità.

Già oggi, molte ricerche mostrano quanto sia cruciale per i lavoratori trovare senso e opportunità di crescita nel proprio impiego. Un dato citato in precedenza: il 60% dei lavoratori lascia un’azienda proprio per mancanza di sviluppo e formazione​. Significa che le persone abbandonano posti di lavoro che magari offrono uno stipendio, ma non offrono prospettive di crescita o un significato più ampio. Questo trend – accentuato con le nuove generazioni – ci dice che il “perché” del lavoro è importante almeno quanto il “cosa” e il “quanto”.

L’intelligenza artificiale può paradossalmente aiutarci a ritrovare il perché del lavoro. Se usiamo l’AI per eliminare certe incombenze noiose, possiamo progettare ruoli che permettano alle persone di esprimere creatività, empatia, ingegno – tutte qualità profondamente umane. Ad esempio, se un commerciale non deve più passare ore a inserire dati nel CRM (perché un assistente AI lo fa per lui), potrà spendere più tempo a conoscere i clienti e capire le loro esigenze: il suo lavoro diventa più relazionale e significativo. Se un project manager delega all’AI il monitoraggio di task e scadenze, può focalizzarsi sul motivare il team e risolvere i problemi creativi del progetto. In sostanza, l’AI può togliere al lavoro la parte “noiosa”, lasciando agli umani la parte “nobile”. Ma ciò avverrà solo se ripenseremo i processi e le organizzazioni in tal senso.

Certo, esistono anche scenari più critici. Alcuni futuristi come Yuval Noah Harari hanno paventato l’avvento di una “classe inutile” di lavoratori, tagliati fuori dal mercato perché sostituiti dalle macchine. Questo scenario estremo può essere evitato investendo proprio sul reskilling e upskilling massiccio della forza lavoro: nessuno deve restare indietro, e qui HR e L&D hanno un ruolo fondamentale nel guidare la transizione. Invece di lasciare che certe professionalità diventino obsolete, le aziende (e la società) possono accompagnare le persone a evolvere in nuovi ruoli dove il contributo umano è insostituibile. D’altronde, come ricordavamo prima, ogni rivoluzione industriale ha creato nuovi lavori: serve immaginazione per intravedere quali saranno quelli dell’era dell’AI, ma ancor di più serve formazione per preparare le persone a ricoprirli.

Un altro aspetto del “senso” del lavoro è la identità personale. Molti di noi definiscono se stessi anche tramite la propria professione. Se i mestieri cambiano, questo può generare spaesamento: “che ruolo avrò tra 10 anni? Il mio lavoro esisterà ancora?”. La risposta potrebbe essere: il concetto di lavoro resterà, ma arricchito di nuove sfumature. Forse non ci identificheremo più al 100% con un mestiere fisso per tutta la vita; diventeremo tutti un po’ più “ibridi” nelle competenze, continuamente in evoluzione. Questo potrebbe anche aumentare la nostra capacità di apprendere e adattarci, facendoci sentire realizzati non in una singola mansione, ma nella nostra capacità di crescere e aggiungere valore in modi diversi nel corso della carriera.

In definitiva, il significato del lavoro nell’era dell’AI dipenderà da come sceglieremo di usare questa tecnologia. Possiamo limitarci a misurare la produttività in modo freddo, oppure possiamo cogliere l’occasione per ridare centralità a ciò che rende il lavoro umano: la creatività, la relazione, l’impatto sociale. L’AI può diventare l’alleato che aumenta la nostra efficacia, mentre noi ci concentriamo su obiettivi più alti del mero output.

Verso un lavoro più “umano” nell’era dell’AI: conclusioni

Arrivati a questo punto, il quadro è chiaro: l’AI sta cambiando il lavoro a un ritmo rapidissimo, ma non è un destino fuori dal nostro controllo. Al contrario, è uno strumento potente nelle nostre mani. Sta a leader HR e L&D, insieme al top management, il compito di guidare questa trasformazione in chiave positiva e umanistica. Come? Alcune idee emerse lungo il percorso: investire in formazione continua per aggiornare le competenze digitali di tutti; riprogettare i ruoli mettendo al centro le capacità insostituibili delle persone; coinvolgere attivamente i dipendenti nell’adozione delle nuove tecnologie (dato che spesso sono loro i primi a volerle usare); e non ultimo, promuovere una cultura in cui l’AI sia vista come collaboratore e non come minaccia.

In occasione di questo Primo Maggio, viene da pensare che la “festa del lavoro” riguardi ormai anche la capacità di reinventare il lavoro. Il significato del lavoro nell’era dell’AI può e deve restare ancorato ai valori umani. La tecnologia può sembrare fredda, ma è nelle nostre mani scaldarla con uno scopo. Come afferma Deloitte, l’AI non è destinata a rimpiazzarci ma a sbloccare il potenziale umano: se implementata bene, può “rendere gli esseri umani più bravi nel proprio lavoro e il lavoro migliore per gli esseri umani”​. Ecco la direzione in cui muoversi.

 

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